Come in un film

L’amplificazione delle nostre esperienze, attraverso la condivisione con l’altro, ed il desiderio di un feedback sociale non ha di per sé niente di nuovo.
L’essere umano ha sempre cercato la condivisione col gruppo di amici, con le vicine di casa, con i compagni, ecc.

La ricerca di notorietà al bar, per “la pesca del pesce più grosso”, o la condivisione di un dolore con le amiche più care, ha sempre contribuito alla creazione di una scala gerarchica (chi è il più forte) e affettiva (su chi posso contare) nel gruppo.
In modo collaudato, la gerarchia, l’affetto e il reciproco aiuto hanno garantito una certa coesione sociale tra gli esseri umani.
Quello che si è modificato, in seguito alla condivisione virtuale, è il numero infinito di esperienze “postate” per la ricerca di visibilità, e la visibilità ad ogni costo, come valore centrale per la persona e per la sua identità.
La visibilità a qualunque costo è diventata un valore positivo, in relazione ad un bisogno estremo di ammirazione, successo, potere, riconoscimento da parte dell’altro che si concretizza nel “like”.
La ricerca di visibilità è collegata ad un diffuso atteggiamento narcisistico, una regressione ad un: “Mi vedi, quindi esisto!”.
Dato che il narcisismo non si fonda sull’empatia, ma sull’applauso e punta agli estremi e agli assoluti (o mi adori o mi odi, tutto o niente), il legame e l’identità virtuali diventano molto più estremi e fragili.
Avremo per questo un corpo sociale che si frammenta più facilmente e delle identità, soprattutto in fase evolutiva, che fanno fatica a stare in piedi, e che possono sgretolarsi rovinosamente a causa di un pollice verso.
Inoltre, come in un circolo vizioso, il numero infinito di condivisioni di esperienze, dalle quali siamo sollecitati giorno e notte, ci rende sempre più saturi e insensibili, paradossalmente meno capaci di condividere profondamente.
Per ottenere visibilità, allora, bisogna “spararla grossa”, amplificare e spettacolarizzare sempre di più la notizia.
Se ho mal di stomaco, posso scrivere che ho rischiato di avvelenarmi; se sono triste, posso mostrarmi disperato, in bilico su un cornicione.
Nella percezione di sé, la notorietà virtuale diventa molto importante per il proprio senso di identità, ma lo è anche nella percezione dell’altro, che viene spesso confuso con il suo profilo social.
Quello che risalta, quindi, non è quello che una persona è, ma quello che mostra di essere, quasi un falso sé, con cui forse è più facile presentarsi, come con una maschera di carnevale.
Il tempo speso a costruire la propria maschera e a guardare le maschere altrui è immenso.
I risvolti nelle dinamiche sociali lo sono altrettanto.
Purtroppo, specialmente in fase evolutiva, incontro persone che non riescono più a distinguere il reale dalla maschera condivisa virtualmente. Tanti si lanciano in relazioni con persone, senza sapere neppure chi siano, e sembrano identificarsi completamente nel protagonista di uno spettacolo, cercando a tutti i costi un attimo di gloria.

La tensione verso la visibilità è perpetua, si sente la necessità di stare sempre collegati e esporre ogni esperienza alla condivisione, per sentirla più reale.
Non ci si rende pienamente conto, però, che la vita reale o il sé reale sono spesso un’altra cosa.
Così ragazzi e adulti investono più su quello che appare che su quello che è, trascurando le relazioni vere e vicine, ma anche il proprio sviluppo individuale, la propria interiorità, rimanendo talvolta con un pugno di mosche in mano.
Infatti, l’idea di poter costruire un “teatrino social” in cui recitare la vita è una pericolosa illusione.
Nella vita reale il sipario non si alza e abbassa a comando e bisogna fare attenzione, perché sotto al cornicione non c’è quasi mai il materasso.

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