Mi colpisce come, incapaci di aspettare o di sviluppare un rapporto profondo, le persone di ogni età, specialmente quelle molto giovani, scimmiottino le relazioni, quasi fosse un gioco, impazienti di entrare nel ruolo di innamorati.

Non sembrano avere lo spazio interiore per sentire profondamente.
Non sembrano avere il tempo perché i sentimenti si sviluppino.
Non sembra che vedano veramente il presunto oggetto d’amore.
Non sembra che abbiano voglia di investire emotivamente su relazioni a lungo termine.

Ma fanno tutto come se fosse vero.

Un pò come i bambini che giocano al “facciamo che”, fanno come se ci fosse una relazione tra persone, mentre nella realtà sembrerebbe una relazione tra ruoli, tra maschere o tra profili Facebook, senza la consapevolezza che si sta solo fingendo.
Si chiamano “amore”, fanno sesso, passano del tempo insieme.
I ruoli interpretati vengono cambiati spesso, come si cambia un vestito, quando non piace più, quando la moda passa, quando si vede qualcosa di più bello (e si sa: l’erba del vicino è sempre più verde…).
L’altro, quello che viene chiamato con tanta leggerezza “amore”, non viene troppo preso in considerazione quando viene eliminato: si mette via il gioco e ci si aspetta che tutto finisca lì, senza conseguenze.

Rivestire un ruolo già pronto è sicuramente molto rassicurante, soprattutto in un periodo della vita in cui si cercano identità e certezze. Il guaio è che recitare una parte, già scritta da altri, preclude la possibilità di scrivere la propria storia, la possibilità di ascoltarsi e di guardarsi dentro, di sentirsi, di conoscersi e di sperimentarsi, di capire cosa si vuole.
Il rischio è di accorgersene troppo tardi, quando, dopo aver coinvolto terzi e quarti, ci si risveglia e ci si accorge di non essere in un gioco.
Per questo è importante prendersi i propri tempi, di fronte a una possibile relazione, ascoltare i propri bisogni, percepire se quello che stiamo facendo è una mera imitazione o è espressione del proprio Io.
A volte non è difficile capirlo: è il caso di quando ci si sente in dovere di fare delle cose che non condividiamo, magari perché qualcuno se lo aspetta da noi o perché lo fanno tutti.
Oppure è la sensazione di inflilarsi in una strada nella quale tutto è scontato, perché così si fa.
O ancora, quando cerchiamo di rivestire il primo ruolo che ci viene offerto, perché è meglio di niente, perché senza ci sentiamo nudi, banali, insignificanti.

E’ allora che dovrebbe scattare il campanello d’allarme, che non va mai sottovalutato: il vestito che sta bene ad altri non è detto che stia bene a noi.
Il vestito che non ci calza a pennello potrebbe impedirci di muoverci in modo naturale o addirittura rallentare il nostro sviluppo o offuscare le nostre percezioni; sia tenerlo che toglierlo può essere molto doloroso per noi stessi e per gli altri.

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